Spirito partenopeo e creatività trasformano ogni suo piatto in un’esperienza formidabile. Andrea Aprea, nel suo omonimo ristorante a Milano, si riprende le due stelle Michelin, che già aveva avuto per il Vun. Il segreto? Passione, cultura, rispetto delle tradizioni. E il carisma per guidare una squadra giovane e affiatata.
Come un bravo direttore d’orchestra, non ha bisogno di alzare il tono della voce per guidare le danze della sua brigata di cucina. Basta uno sguardo (a volte fulminante) e tutti sanno esattamente cosa fare, come stare nei ranghi e creare il meglio per gli ospiti del suo “Ristorante Andrea Aprea Milano”, all’ultimo piano della Fondazione Luigi Rovati, dove si viene per esplorare il rapporto tra memoria e gusto.
Andrea Aprea dal Vun al ristorante che porta il suo nome
D’altra parte Andrea, 47 anni, Milano la conosce bene, qui dice la sua già da 12 anni, dopo l’esordio, giovanissimo, con il primo ristorante a Napoli, “Il Comandante” dell’Hotel Romeo. Così, per garantire continuità, ha scelto di portare con sé i bravi ragazzi che già hanno lavorato per lui. Fondamentali anche per coprire, oltre al ristorante con splendida vista sui giardini di via Palestro, il servizio al Bistrot, che si affaccia su una corte segreta immersa nel verde.
Il segreto del successo di questo eclettico chef, che al “Vun” del Park Hyatt Milano in soli 11 mesi prese la prima stella, e dopo 4 anni la seconda? “Passione, determinazione e forgiare le esperienze per poi crescere”, spiega con sguardo illuminato. “Puoi lavorare con i mostri sacri dell’alta ristorazione, mettere le esperienze fatte in valigia, ma poi devi capire chi sei, devi aprire quella valigia e dire cosa ti piace e cosa no. Io ho scelto nel 2008 di fare una cucina ideale contemporanea, in un’Italia con mille contaminazioni, a iniziare dal Sud. E quindi per me un piatto deve avere dietro cultura, anima, riportare alle tue origini”.
La tavola parla di territorio
Domanda indiscreta, che cos’ha Andrea nell’anima? “Un forte legame con il territorio. La mia filosofia gastronomica evoca ricordi, affonda nelle tradizioni, riporta i gesti degli avi in chiave contemporanea”. Tutto questo serve a innescare un processo di scambio tra differenti luoghi dell’esperienza: nel ricordo, nello sguardo, nell’olfatto, nel palato. Il tempo è infatti un ingrediente fondamentale di questo viaggio nei sensi. Perché la più grande fonte d’ispirazione dello chef è la memoria: le emozioni, la conoscenza del territorio e la cultura che ha forgiato la cucina italiana. È il ricordo che crea una sospensione del presente per accompagnare l’ospite in un’altra dimensione temporale. Il viaggio gastronomico comincia nella scelta delle materie prime.
I rapporti tra acidità, sapidità, amaro e dolcezza sono alla base delle proposte della carta, così come i rapporti formali e di consistenza dei cibi presenti nel piatto, proprio per concedere un’alternanza di vibrazioni al palato: tra morbido, sapido, acido, dolce, leggermente piccante, in un dialogo continuo tra sapori vicini e opposti. Qualche esempio? Per un percorso guidato, come piace ai tanti che prenotano (spesso in lista d’attesa) un tavolo nella bella ed elegante sala del ristorante comprende 3 proposte: “Contemporaneità”, un percorso di 4 portate dedicato al rapporto tra memoria e innovazione. “Partenope”, viaggio in 6 portate nelle suggestioni della Campania e “Signature”, un’esperienza assoluta nella filosofia dello chef in 8 portate.
I piatti di Andrea Aprea
Qualche esempio di piatto proposto? La Caprese Dolce Salato, un cult concepito da Aprea nel 2011, che ha conquistato la World’s 50 Best e continua ad affascinare per l’apparente semplicità, che nasconde una notevole complessità nella lavorazione. Il risultato: una sfera da gustare solo con il cucchiaio… Tra i signature più amati, il Ri-Sotto-Marino, tutta un’altra cosa rispetto ai soliti banali risotti milanesi, mentre per “Partenope” stupisce sempre l’Uovo al Purgatorio.
E se un buon ristorante si vede anche dal servizio, qui le prossime stelle se le sono già meritate, tutto fila alla perfezione, con eleganza, cortesia e professionalità. La stessa che ha fatto già scalare posizioni alla giovane maître e sommelier Jessica Rocchi, classe 1994, che deve gestire la “Sala dell’Uva”, cantina-caveau con 2.500 bottiglie di oltre 800 etichette, per creare un binomio perfetto con i capolavori della cucina. La carta dei vini racconta il percorso di trasformazione di emozioni in sapori, di luoghi e clima in note olfattive.
La selezione è infatti un elemento fondamentale dell’esperienza. Non solo nella nobiltà di grandi cantine, nel blasone dei marchi che fanno la storia dell’enologia, ma anche in piccole perle rare che testimoniano storie di amore per il territorio.
Articolo tratto da numero invernale di Robb Report
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