Sono passati cinquant’anni da quando il grande circo della boxe ha avuto per la prima volta il coraggio di percepirsi come globale, uscendo dai confini sicuri del mondo americano e britannico, per spostarsi nel cuore dell’Africa.
Articolo di Federico S. Bellanca
Il 30 ottobre 1974 allo Stade Tata Raphaël in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo il giovannismo campione del mondo dei pesi massimi George Foreman incrociò i guantoni con l’ex campione Muhammad Ali, il quale puntava a riconquistare il titolo e a diventare il secondo pugile nella storia, dopo Floyd Patterson, a riuscire in tale impresa.
Considerato uno dei match più importanti nella storia della boxe, l’evento segnò il ritorno di Ali al vertice, con una vittoria memorabile. Allo stadio assistettero 60.000 spettatori, mentre oltre un miliardo di persone lo seguirono in diretta televisiva, rappresentando circa un quarto della popolazione mondiale dell’epoca. “Rumble in The Jungle” fu definito “l’evento che ha messo Kinshasa sulla mappa”, visto che fece conoscere la capitale e il suo nuovo stato, ovvero lo Zaire, al pubblico occidentale, essendo stato il live più seguito della storia fino a quel momento. Il leggendario promoter dell’evento, Don King, riuscì a coinvolgere Ali e Foreman attraverso due contratti separati, garantendo un premio complessivo di cinque milioni di dollari.
L’anno stellare della boxe
Quella che all’epoca pareva una cifra esorbitante, oggi (anche attualizzata) non può competere con il giro d’affari che ha travolto e sempre di più sta travolgendo il pugilato, con una pioggia di petroldollari che sya spostando ancora una volta il baricentro dall’America, questa volta però verso i paesi arabi. Il 2024 sarà ricordato per due incontri che sono stati agli antipodi come performance, come protagonisti e come location geografica, ma speculari per il giro d’affari che hanno generato, e che in qualche modo sancisce la fine dell’era americana e l’ascesa di quella Araba. Ma andiamo per gradi.
Paul vs Tyson: 120 milioni per 16 minuti
Sarà l’effetto nostalgia o la fama dei due protagonisti, ma il mondo intero si è lasciato conquistare dall’incontro-show tra Jake Paul e Mike Tyson in Texas, che ha attirato milioni di spettatori e generato cifre da capogiro. Il match tra il 27enne Jake Paul e la leggenda della boxe Mike Tyson, 58 anni, ha rappresentato un evento mediatico senza precedenti, e se alla fine il risultato è stato più un spettacolo che come un vero match competitivo, l’evento ha generato un volume d’affari straordinario.
Jake Paul ha incassato un compenso garantito di 40 milioni di euro solo per salire sul ring, mentre Tyson ha ricevuto 20 milioni di euro. A questa cifra si aggiunge un montepremi complessivo di 80 milioni di euro, equamente diviso tra i due contendenti. In totale, i due pugili hanno guadagnato circa 120 milioni di euro in 16 minuti di combattimento, che equivale a 10 milioni al minuto o 5 milioni a testa ogni 60 secondi. A queste somme vanno aggiunti gli incassi derivanti dalla trasmissione in esclusiva su Netflix (che mira sempre di più a coprire il segmento sport, con un occhio speciale per quelli da combattimento), dagli sponsor e dall’indotto generato dall’evento, il quale ha monopolizzato l’attenzione mediatica per mesi.
Usyk vs Fury: un campione undisputed per 138 milioni di dollari
Ma se i social e i telegiornali si sono concentrati in modo quasi morboso su questa notizia, pompandola in modo finanche eccessivo visto che alla fine per far arrivare all’ultima ripresa l’ex campione ormai quasi sessantenne si è dovuto piegare le regole, sia con un numero di riprese ridotto, sia con un minutaggio calibrato ad hoc (due minuti invece dei regolamentari tre), l’incontro che passerà alla storia del 2024 sia per rilevanza che per valore economico è stato un altro. Si tratta di quello primaverile tra Oleksandr Usyk e Tyson Fury a Riyadh, senza dubbio uno degli eventi pugilistici più significativi del terzo millennio visto che per la prima volta in oltre vent’anni, le cinture dei principali circuiti dei pesi massimi (Wba, Wbo, Ibf, Ibo e Wbc) sono state riunite sotto un unico campione, consacrando l’ucraino Oleksandr Usyk come il re indiscusso della categoria.
L’aspetto economico dell’evento è altrettanto impressionante: il montepremi complessivo ammontava a 150 milioni di dollari (circa 138 milioni di euro). Secondo gli accordi pre-evento, Fury ha ricevuto il 70% degli introiti, pari a circa 105 milioni di dollari (96,6 milioni di euro), mentre Usyk si è aggiudicato il restante 30%, ovvero circa 45 milioni di dollari (41,4 milioni di euro). Questo nonostante la sconfitta subita dal britannico, ribattezzato “The Gipsy King”, che ha dovuto cedere lo scettro della categoria dopo un match combattuto fino all’ultimo. E la domanda pare legittima. Come siamo finiti a vedere proclamare il campione indiscusso in Saudi Arabia, e in questo caso da dove provengono i soldi?
Riyadh Season: la nuova Mecca del pugilato
Il nome “Riyadh Season” può non apparire nuovo a molti appassionati di sport in Italia, visto che come sponsor si è visto sulle magliette della A.S Roma, ma per chi non sapesse di cosa si tratta è il progetto tramite cui l’Arabia Saudita ha investito per trasformare Riyadh in un polo attrattivo per eventi sportivi globali, con particolare attenzione al pugilato.
Dietro questa strategia c’è Turki Alalshikh, presidente della General Entertainment Authority, il quale ha giocato un ruolo fondamentale nella promozione di eventi come la Riyadh Season. Questo programma non solo ha riportato la boxe ai suoi massimi livelli, ma ha anche attratto star mondiali di altri sport, dalla Formula 1 al tennis, con eventi come il “Six Kings Slam” che ha coinvolto top player del calibro di Novak Djokovic, Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, e a portare a giocare nel campionato di calcio locale Cristiano Ronaldo, Neymar e Benzema.
La Saudi Vision 2030, iniziativa voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salman, ha reso il Regno una destinazione ambita non solo per il pugilato, ma per l’intrattenimento sportivo in generale. Le risorse finanziare a disposizione di Alalshikh hanno permesso di superare gli attriti tra promoter internazionali e di organizzare incontri che fino a pochi anni fa sembravano impossibili.
Perché l’asse del pugilato si sta spostando dagli USA alla Saudi Arabia
Rumble in The Jungle è passato alla storia non solo per il grande ritorno di Alì, ma anche per la location insolita che fornì un palcoscenico esotico e fuori schema. Il futuro della Boxe sembra diverso. Tradizionalmente, gli Stati Uniti erano considerati la patria del pugilato professionistico, con match epocali disputati in arene iconiche come il Madison Square Garden di New York o la MGM Grand di Las Vegas, ma nel 2024 praticamente tutti gli incontri titolati di massimo livello sono stati a Riyadh, e la scaletta annunciata del 2025 non pare da meno. L’ultimo appuntamento della stagione è stato fissato per il 21 dicembre 2024, quando Usyk e Fury si sono affrontati nuovamente sul ring saudita per il tanto atteso rematch. L’incontro ha generato oltre 150 milioni di euro di introiti, consolidando ulteriormente la posizione dell’Arabia Saudita come nuovo epicentro della boxe mondiale.
Se il 2024 ha dimostrato qualcosa, è che il pugilato, lungi dall’essere in declino, sta vivendo una nuova età dell’oro. E questa volta, il ring non è più esclusivamente americano, ma globale, con Riyadh pronta a dettare le regole del gioco per il prossimo decennio, ma anche con l’entrata in scena di player globali fino a ora assenti come le piattaforme di streaming. E se c’è chi da questa parte del mondo urla allo scandalo, c’è da ricordarsi che nel 1974 Don King scelse di far combattere in Zaire perché lo sponsor dei faraonici cachet era il dittatore Mobutu Sese Seko, desideroso di dare visibilità internazionale a se stesso e al suo Paese.
Le storie dei gladiatori e degli Imperi in fondo vanno a braccetto da millenni, e a volte per capire la geopolitica bisogna vedere dove i soldi stanno acquistando non solo più pane, ma anche più circo.
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