In uscita al cinema il 15 dicembre, House of Gucci si annuncia come l’evento cinematografico di Natale. Ma il regista britannico non sembra avere colto fino in fondo toni e sfumature di una faida infinita. E di un’epoca che nel film risalta poco…
Chissà che cosa ha ispirato un regista di culto come Ridley Scott, 84 anni portati con noncuranza, per ripercorrere un pezzo di storia italiana (meglio, italo-americana) e di una dinastia controversa come quella dei Gucci.
Una cosa è certa: House of Gucci (sugli schermi dal 15 dicembre, consigliabile la versione originale sottotitolata) accontenterà i fan di Lady Gaga, praticamente perfetta nell’interpretare Patrizia Reggiani, l’ex moglie di Maurizio Gucci condannata per avere organizzato l’omicidio del rampollo del casato di artigiani fiorentini. Sul resto dell’operazione, riuscita solo in parte, qualche appunto. A iniziare dalla scelta della magione milanese in cui vive il patriarca e a cui approdano spesso figli, nuore, clienti, amici: Villa Necchi Campiglio, ben conosciuta dai tanti perché, sotto il patrocinio del Fai, è tra le più viste e visitate per la bellezza delle opere d’arte contenute, per essere stata costruita da quel genio di Portaluppi, e per vantare uno tra i giardini (con piscina) più chic della città.
Peccato che con i Gucci la Villa non c’entri niente, fu infatti costruita su incarico della famiglia Necchi Campiglio, ricca ed elegante borghesia industriale della Milano anni Trenta. Una discrepanza che si nota, eccome, proprio per la riconoscibilità della esclusiva magione. Altro particolare che ha fatto stortare il naso durante le anteprime: possibile che di quei favolosi fine Sessanta-inizio Settanta rimangano il colbacco di pelliccia della protagonista, le lunghe ciglia finte, i mocassini iconici di Gucci, le auto e poco altro?
In effetti, nelle 3 ore (forse un po’ tirate per le lunghe) si respira un’aria relativamente vintage, non si vedono quasi le sfilate né si avverte quell’aria di cambiamento che dava colore e charme al grigiume milanese. Mentre spicca la solita immagine che gli americani spesso danno degli italiani: pasticcioni, poco professionali, tutti battute sulle spalle e stile non proprio da lord. Giusta invece l’idea di girare il film in uno slang Usa molto italianizzato: la vera Reggiani ha veramente sempre padroneggiato bene la lingua, cosa non scontata per quei tempi per una che non veniva certo da quartieri alti e da un’educazione in università private.
Meno azzecata la scelta di Adam Driver. Visto in tanti, troppi film, questo bravo spilungone poco ci azzecca con Maurizio, l’erede del marchio italiano più famoso al mondo, dipinto nel film come un debole indeciso, poco incisivo anche nei momenti in cui ha avuto in mano le redini della celebre griffe. Al contrario, sempre troppo sopra le righe e non del tutto convincente appare Aldo Gucci/Al Pacino, forse ancora ispirato dal sempre celebrato Il Padrino.
Certo, se Ridley avesse dato un’occhiata a Lady Gucci: la storia di Patrizia Reggiani, il docufilm firmato da Flavia Triggiani e Marina Loi passato a inizio anno su Discovery, certi inciampi di percorso se li sarebbe risparmiati. Anche perché la vera dark lady di questa storia è Silvana Barbieri, la madre di Patrizia. Che alleva la “bastarda”, come spesso chiama la figlia, con il solo obiettivo dell’arrampicata sociale, ovvero caccia grossa al marito ricco e famoso. Tanto determinata da tentare di scippare il malloppo alla figlia in carcere, facendola interdire per amministrarne i beni. Lei sì una cattiva vera.
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