Nello scenario grandioso del deserto del Nord Ovest dell’Arabia Saudita, si nasconde l’immensa necropoli rupestre in forma di città con decine di tombe intarsiate in monoliti rocciosi
articolo tratto dal numero di novembre di Robb Report Italia
Bisogna affrettarsi per poter vedere quel gioiello archeologico di Hegra, l’araba Mada’in Salih nel profondo deserto nord-occidentale saudita, come l’hanno vista i primi esploratori europei un paio di secoli fa. Primo tra tutti quel Charles Montagu Doughty, autore di Travels in Arabia Deserta (1888), pietra miliare della narrativa di viaggio, che per raggiungerla non esitò a travestirsi da pellegrino e accodarsi, nella siriana Damasco, a una carovana di devoti diretti alle città sante dell’Islam. Ci mise quasi due anni.
Ma quando arrivò, nello scenario grandioso e solenne di dune e distese di sabbia, gli si spalancò una visione. Quella di una immensa necropoli rupestre in forma di città. Città che, per folgorante sortilegio geografico, sembrava racchiuderle tutte. A Hegra, come a Petra, capitale del regno, i misteriosi nabatei, tra i più grandi mercanti del mondo antico, avevano fantasiosamente mescolato nei loro monumenti sepolcrali quegli elementi architettonico-decorativi, presi in prestito dai popoli con cui intrattenevano scambi: assiri, babilonesi, fenici, egizi, greci, romani. Melting pot in chiave funeral.
La città silenziosa
Anche qui, remoto lembo di mondo a circa trecento chilometri a nord di Medina, dove nella moschea del Profeta riposa Maometto, la città dei morti ha oltrepassato in durata quella dei vivi. E da duemila anni, decine e decine di tombe (ben 131 in più di 13 chilometri) intarsiate in maestosi monoliti rocciosi ogni sera continuano a ripetere lo stesso spettacolo: incendiarsi al tramonto di arancio e di rosso. Archeologia in technicolor.
Florida stazione carovaniera lungo la Via dell’Incenso, che in novanta giorni di viaggio a dorso di dromedario univa l’estremità della Penisola Arabica con il Mediterraneo, Hegra inizia il suo lento, ma inesorabile declino quando diventa parte dell’impero romano, che sposta l’asse dei commerci verso il Mar Rosso. Dal VI secolo d.C. viene completamente abbandonata. I soli a transitare nella “città silenziosa”, occasionali drappelli di beduini e pellegrini.
Un ambizioso progetto
Rimasta fino agli inizi del XX secolo in un isolamento quasi totale, che l’ha cristallizzata nel tempo consegnandola a un sorprendente stato di conservazione, Hegra (dal 2008 patrimonio dell’umanità Unesco) è oggi il fulcro di un’ambiziosa strategia di sviluppo. Un progetto legato all’apertura globale della valle di AlUla, museo a cielo aperto esteso quanto il Belgio, scrigno di tesori storico-naturalistici di prima grandezza, di cui la Petra d’Arabia, con le sue tombe gioiello nell’arenaria rosa, è punta di diamante.
Per uno sviluppo sostenibile e integrato della regione, la Royal Commission for AlUla, fondata nel 2017, ha stanziato investimenti per venti miliardi di dollari entro il 2035, quando si prevede l’arrivo di due milioni di visitatori l’anno. Che troveranno sorprese come il Jabal Ikmah, sito istoriato con centinaia di iscrizioni rupestri, o la Riserva naturale di Sharaan a salvaguardia del leopardo arabo, originario proprio di AlUla. Una speranza. Che Hegra, luogo di rapinosa magia e intatto mistero, non diventi territorio di conquista per il turismo del terzo millennio. Dopo secoli di splendida solitudine, non lo meriterebbe.
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