Opere misteriose, una continua ricerca sul colore, la luce, la prospettiva, in un dialogo ideale con i grandi pittori veneziani. Così lo scultore indiano celebra in Laguna, durante la Biennale, il suo percorso alla ricerca dell’assoluto
Luce e ombra, pieno e vuoto, visibile e invisibile… L’anglo-indiano Anish Kapoor (Mumbay, 1954) si interroga da sempre sul concetto di dualità, secondo il pensiero orientale della concordanza tra opposti. Le sue sculture misteriose, semi organiche (“voglio negare la presenza dell’artista, andare oltre il gesto”) sono in fondo meditazioni a tre dimensioni sull’ingannevole verità delle apparenze.
Questo, e molto altro, nella poderosa antologica in cartellone a Venezia (20 aprile-9 ottobre), slittata di un anno causa pandemia e oggi clou della Biennale. Una mostra evento, che celebra l’artista baronetto, Turner Prize 1992 (Oscar dell’arte), alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin, scelto da Kapoor come futura dimora della propria fondazione. Già residenza del conte Girolamo Manfrin, ne custodì la strepitosa quadreria, forte della misteriosa Tempesta di Giorgione, ora tra i gioielli della stessa Accademia.
In una trama di corrispondenze tra passato e futuro, pezzi storici e creazioni mai esposte prima (molte realizzate per l’occasione) documentano i passaggi della ricerca dello scultore. Ricerca approdata a opere estreme. Quelle in nero assoluto. Opere realizzate con il materiale più impenetrabile dell’universo, il Vantablack, pigmento in microparticelle di carbonio nato a fini militari per verniciare velivoli da rendere invisibili ai radar, di cui Kapor ha acquistato i diritti esclusivi nel 2016. In grado di assorbire il 99,96% di radiazioni luminose, il nero più nero del mondo priva le opere di ogni dimensione per “creare qualcosa più profondo della vita“.
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